È un altro giorno a Gaza e ci risvegliamo in una città un pochino più silenziosa. Ci siamo guardati in faccia durante la colazione e, ancora scossi per la notte appena trascorsa, abbiamo messo sul piatto le emozioni vissute.
Dopodichè si parte, abbiamo il nostro solito appuntamento, non facciamoci attendere!
Appena messi in strada, la città ci è apparsa quella di sempre: andando verso la scuola tutto era come prima, come si dice da noi “tutt’appò”!
Arrivati al punto dove svolgiamo i laboratori, ci si presenta la domanda fatidica: come affrontiamo quello che è successo la notte scorsa con i bambini? Ne parliamo? Facciamo a finta di nulla? Ci confrontiamo con la psicologa palestinese che meglio di noi sa come gestire questo tipo di situazioni e decidiamo quindi di parlarne cercando di utilizzare la massima cautela.
I mezzi che abbiamo a disposizione per rompere il cosiddetto “ghiaccio” sono la lettura di una favola, che cerca di rendere gestibili le proprie paure, e l’associazione di esse con un suono o un colore.
Decidiamo di aprire noi in primis, mettendoci a nudo e dimostrando che è umano provare e mostrare emozioni e sensazioni e che la condivisione di esse può aiutarci nel capirle meglio ed affrontarle.
La lettura del libro ha catturato fin da subito la curiosità e l’attenzione dei più piccoli e questo ci ha portato a considerarla una scelta azzeccata. Nei prossimi giorni, come da programma, lo story telling anticiperà l’inizio dei vari laboratori.
Dopo l’open day, dove i workshop sono stati presentati all’intero gruppo all’unisono, oggi i ragazzi sono stati suddivisi in tre gruppi eterogenei, ciascuno dei quali si è alternato nei vari laboratori per poi concludere la giornata insieme alla psicologa con un’espressione e condivisione delle emozioni provate in itinere, un passaggio fondamentale per verificare la bontà del metodo scelto.
Non solo un metodo pedagogico, ma soprattutto di socialità, in cui le decisioni vengono prese collettivamente, come ad esempio nel corso di Graffiti, in cui ciascun gruppo ha democraticamente scelto il nome da attribuire alla propria crew, perché crediamo nella potenza della partecipazione.
Non possiamo ancora stabilire quanto siamo riusciti ad incidere sulla psiche dei nostri piccoli amici, questo sarà un lavoro a medio termine affidato ai professionisti che supporteremo dopo il nostro ritorno in Italia, ma siamo certi che non poteva esserci modo migliore per chiudere un’altra giornata come questa: una battle di freestyle al grido di “Peace, unity, love and havin’ fun”.
Non solo un motto, bensì un vero e proprio grido di speranza.
Non c’è niente di più coinvolgente dell’energia di un bambino che sorride.
L’open day, che per noi ha rappresentato il fatidico giorno della messa in pratica del nostro progetto, ci ha regalato la soddisfazione di ammettere che non ci sono difficoltà che la condivisione di un momento sereno assieme non possa superare.
Le nottate passate insonni a programmare i laboratori nel dettaglio hanno dato i loro frutti: la vita qui a Gaza riserva ogni giorno un sacco di sorprese ed inconvenienti, ma se c’è una cosa che non ci manca è la capacità di reinventarsi e riadattarsi in ogni occasione! Forse stiamo iniziando apprendere il “somod”! Il posto ci ha fin da subito fatto sentire aria di casa questa mattina. Facciamo appena in tempo a finire di sistemare gli ultimi preparativi, e improvvisamente una grande emozione: l’arrivo dei bambini, con i loro sguardi curiosi e pieni di vitalità, ci riempie di gioia.
Il concetto stesso di “open” ben esprime questa giornata: l’abbiamo interpretata nel modo più aperto possibile e senza dubbio è stata una scommessa vinta!
Dopo esserci presentati ai 20 ragazzi della CB Crew che hanno partecipato ai workshop abbiamo provato a riassumere, con l’arma più forte dell’Hip Hop, quella del fare, le attività che realizzeremo.
Si comincia con B-boy Khalifa: a lui l’arduo compito di aprire letteralmente le danze. Ma ha subito vita facile: i b-boy dei Camps Breakerz conoscono bene quella grammatica, è il loro pane quotidiano.
La straordinaria tecnica del ballerino seduce subito tutti i ragazzi, dai più giovani (di soli 4 anni) ai più skillati. Corpi che ballano liberi come raramente succede in questa terra. All’unisono diventano ipnosi collettiva.
E’ fatta, abbiamo rotto il ghiaccio. Abbiamo conquistato la fiducia dei ragazzi e delle psicologhe, adesso la parte più difficile sarà mantenere alta l’attenzione e il livello. Per questo ci affidiamo a una certezza: il rap di Oyoshe. Solo 28 anni ma, nonostante la giovanissima età, potremmo considerarlo un veterano della scena partenopea.
Proprio il perfetto mix tra la sua straripante napoletanità e le capacità tecniche lo hanno immediatamente reso l’idolo dei ragazzi, compresi quelli che non avevano mai rappato in vita loro. Nel frattempo, la più anziana delle psicologhe ascolta e prende appunti. Ci chiediamo se possa essere contrariata da tanta esuberanza, invece non appena Oyoshe termina la sua strofa lei si alza, apre il quaderno e sfodera una barra in rima, in arabo, perfettamente a tempo! E’ ufficiale: abbiamo conquistato tutti!
Con una naturalezza incredibile il gruppo si è immerso in una prima sessione di registrazione, con il fondamentale aiuto di Ayman, necessaria ad acquisire alcune le nozioni tecniche fondamentali. Il risultato è un rap dalle sonorità arabesche che sa sapientemente miscelare elementi locali con il dialetto di Napoli. Certo, siamo solo alla prima lezione e molte cose sono da sistemare ma siamo talmente fieri del risultato che non vediamo l’ora di condividerlo con voi. La strada è lunga e tortuosa ma è una strada vera, la stessa che ha dato vita a quel suono che oggi riesce a far sputare fuori parole che appartengono a tutti.
Dopo queste scariche di adrenalina è il momento di affidare a Smake ed Albee il compito più difficile: concludere la giornata con l’ultima disciplina. Quella forse più riflessiva, in cui i bambini sono chiamati a reinventare una cosa che può apparire naturale come la scrittura in una chiave totalmente nuova. Anche in questo caso la lezione che tutti abbiamo imparato ha capovolto completamente i punti di vista: le lettere arabe, il loro flow inverso rispetto ai canoni a cui siamo abituati, sono diventate segni grafici da cui far ripartire un nuovo modo di comunicare. Presto diventeranno graffiti, innesti di colore che ci ricorderanno che Gaza è viva. Un segno (quasi) indelebile da cui ripartire. Arduo per noi il compito di dover spiegare in inglese come devono colorare dal momento in cui, traducendo, ci accorgiamo che, per un inaspettato gioco di parole gli chiediamo “color inside the border”: quest’ultima parola ha lo stesso significato di confine.
Finiti i workshop ci rilassiamo al mare con degli amici palestinesi dalle parti di Khan Younis. Sembra una normale serata in una spiaggia qualsiasi; le famiglie passeggiano sul bagnasciuga e qualcuno fa il bagno. Ci emozioniamo guardando il sole tramontare direttamente dentro l’acqua mentre giochiamo a calcio insieme ai bambini. Quando il cielo inizia a diventare scuro ci rendiamo immediatamente conto di non essere in una spiaggia di un luogo qualsiasi del mondo: all’orizzonte vediamo comparire immediatamente una miriade di punti luminosi; sono le motovedette della marina militare israeliana schierate a fare da confine alla linea di mare, a 3 miglia nautiche dal luogo in cui ci troviamo. Chiacchieriamo con i nostri amici fumando narghilè, quando improvvisamente il silenzio viene interrotto da degli spari: provengono proprio da quelle navi all’orizzonte. Probabilmente sparano per intimidire i pescatori. Restiamo sconvolti da come la vita in spiaggia vada avanti lo stesso, quasi che i gazawi siano incuranti di quello che sta accadendo, tanto sono abituati.
Torniamo al nostro dormitorio mentre il silenzio della notte è rotto dal ronzio dei droni.
E’ ora di andare a dormire. Stiamo rileggendo questo report prima di pubblicarlo, quando un lampo di luce rossa illumina improvvisamente il cielo sopra di noi. Quello che segue sono dei boati ed una serie ininterrotta, che a noi sembra interminabile, di spari di mitragliatrice. Non c’è dubbio: stanno bombardando proprio vicino a dove ci troviamo. Scopriamo dopo pochi minuti che, secondo fonti locali, è in corso un’operazione militare mirata a Deyr Al Balah, proprio il luogo nel quale teniamo i nostri workshop. Mentre scriviamo l’operazione continua da quasi un’ora. Una delle bombe è caduta sul tetto di una casa, causando danni materiali al suo interno. Nessun membro della famiglia è rimasto ferito. Ci troviamo a circa 4 Km in linea d’aria dalla zona colpita, tuttavia siamo in un’area che le autorità ritengono al sicuro. Vi terremo aggiornati sulla situazione.
Pubblichiamo una riflessione del rapper Oyoshe sui bombaramenti di ieri
Sta notte l’ho scoperto davanti allo scenario che ci ha tenuto ad occhi aperti dal nostro balcone a Khan Yunis. Purtroppo la TV non ne parla, e pare che la gente qui sia costretta a sprofondare in un angosciante abitudine. Stavamo per andare a letto, pronti per affrontare un’altra giornata di workshop con i bambini, fino a quando quei ronzii nel cielo non si sono trasformati in spari e boati non troppo distanti da noi.
Il cielo nero intenso e profondo si è illuminato di rosso, a causa delle bombe rischiaranti. Ci siamo messi ad osservare inermi quella che purtroppo era una scena reale, che fino ad adesso credevo di poter vedere solo al cinema, o in TV, ma ormai le probabilità di vederla in questa ultima diminuiscono sempre di più. In breve siamo riusciti a capire che c’era un conflitto proprio nel luogo dove operiamo con i bambini; Deir Al Balah.
Tantissimi i pensieri e le preoccupazioni per questi ultimi e le loro famiglie, ma fortunatamente oggi la giornata è iniziata serena, come se nulla fosse mai accaduto, pur non avendo chiuso occhio.
Ci siamo diretti alla sede, e abbiamo trovato i ragazzi già tutti riuniti ad aspettarci, e la prima cosa da fare è stata discutere in cerchio con loro e gli psicologi riguardo all’accaduto, per esorcizzare la paura e affrontare al meglio la giornata, ed infatti così è stato; abbiamo proseguito con le nostre attività ludico ricreative, portando a casa sorrisi stanchi ma soddisfatti dei risultati che già stiamo vedendo da questa nostra operazione.
A noi interessa di prenderci cura dei bambini, non facciamo alcun tifo per nessuno, speriamo solo in loro per provare a cambiare i programmi del presente….the future is now.
La Libertà, anche in un inferno come Gaza, può covare sotto la cenere, può avere percorsi carsici, può muoversi lenta ma inesorabile come la lava ma prima o poi viene fuori anche nelle forme più inaspettate.
Basta una goccia, un alito di vento. A volte il beat è un detonatore, tutto ciò di cui la calma apparente ha bisogno per trasformarsi in forza e bellezza e spazzare via i limiti e le barriere che alle comunità vengono imposte o che talvolta si autoimpongono.
Ma la Libertà non sempre viene da sola, talvolta va ricercata e richiede un duro lavoro. Può stare nel fragore delle masse o nei grandi gesti. Ma stupisce ancora di più quando invece è coltivata nel solco delle piccole cose.
Piccole solo se paragonate alla dura realtà a cui la vita costringe i bambini di Gaza. Cosa può fare l’Hip Hop per alleviare le sofferenze di un bambino costretto a vivere intercluso all’interno di un muro senza acqua corrente, abituato all’energia elettrica intermittente, ai bombardamenti, alla povertà, al dolore e ai traumi che inevitabilmente un territorio martoriato come la Striscia gli pone davanti quotidianamente? Forse potrebbe sembrare un palliativo di qualche ora, il trastullo di un ragazzo costretto a crescere troppo velocemente, magari un’evasione.
O forse, come abbiamo immaginato, può essere non solo il supporto necessario per affrontare quella durezza ma può andare oltre, può riuscire a creare nuove forme di socialità via via sempre diverse ma che parlano un linguaggio comune universale? In definitiva, può l’Hip Hop a Gaza cambiare per sempre la vita di questa e delle future generazioni?
Ci basta pensare che l’ha già fatto in altre parti del mondo, partendo da situazioni molto diverse di disagio e povertà.
Come lo sappiamo? L’abbiamo letto chiaramente negli occhi dei ragazzi che oggi ci hanno dato una mano a rendere accogliente il posto in cui si svolgeranno tutte le attività del progetto Gaza is Alive. Lo abbiamo chiaramente letto in ogni goccia di sudore sgorgata per ripulire il giardino e la struttura, in ogni sorriso durante i lavori di sistemazione, nelle pause a base di breakdance e in qualche rima improvvisata in lingue dalle fonetiche così diverse.
C’era tutto questo e tanto altro ancora in questa giornata di duri lavori preparatori. Come abbiano fatto un rapper napoletano, un ballerino franco-algerino, dei breakdancer gazawi e l’umanità varia che ha attraversato quell’edificio della Striscia di Gaza a ballare insieme, cantare insieme, provare a chiudere rime in strofe improbabili rimane parte di quella magia, non sappiamo spiegarvelo fino in fondo ma sappiamo che, se questo è stato solo un assaggio, ci aspettano grandi cose.
Le bombe, la violenza e la disperazione possono trasformarsi in speranza, fratellanza e in duro lavoro per raggiungere obiettivi che talvolta sembrano impossibili.
Abbiamo ancora addosso sudore e stanchezza ma siamo pronti alle sfide che ci aspettano domani mattina.
Dopo mesi di preparazione e di costruzione collettiva la carovana “Gaza is Alive 2019” è entrata nella Striscia di Gaza. Non è stato un viaggio semplice, non tanto per gli spostamenti, ma per tutta l’attività preparatoria e burocratica necessaria per fare in modo che il progetto potesse partire realmente.
Gli attivisti e le attiviste coinvolti/e hanno vissuto in prima persona cosa vuol dire l’occupazione militare della Striscia e cosa vuol dire l’assedio israeliano: passaporti, visti, dinieghi e attese estenuanti.
Queste le impressioni del primo giorno: il prologo di un diario di bordo – umano e politico, narrativo e analitico – che ci accompagnerà per tutta la carovana.
Ci avete accompagnati in questi mesi nel lungo viaggio che ci ha portati a costruire il progetto Gaza is Alive 2019. Grazie al vostro supporto siamo riusciti a rendere questa carovana realtà!
Abbiamo appena messo piede in quella che ci siamo resi conto essere la “più grande prigione a cielo aperto del mondo”: siamo dentro la Striscia di Gaza, carichi di entusiasmo e già pronti a partire con le numerose attività che ci siamo prefissati.
Non è stato un viaggio semplice. Non tanto per gli spostamenti ma per tutta l’attività preparatoria e burocratica necessaria per fare in modo che il progetto potesse riuscire. Abbiamo vissuto in prima persona cosa vuol dire l’occupazione militare della Striscia e cosa vuol dire l’assedio israeliano: passaporti, visti, dinieghi e attese estenuanti, ma ne è valsa la pena.
Sfortunatamente l’ossessione di controllo -a tratti paranoica- dello stato Israeliano non ci ha permesso di far entrare all’interno della Striscia parte dell’attrezzatura musicale acquistata grazie al vostro supporto, nell’ottica di donarla alla comunità locale: attrezzatura necessaria per alcune attività ludiche e musicali. Non abbiamo nemmeno potuto portare con noi gli strumenti di documentazione – fotocamere e microfoni – ma faremo in modo di tenervi costantemente aggiornati sul nostro lavoro.
Ma questo non ci scoraggia di certo! Se c’è una cosa che abbiamo imparato dai palestinesi è proprio la resilienza, l’arte di riuscire a reinventarsi e adattarsi, adeguando ciò che siamo riusciti a portare con noi in veri e propri strumenti di resistenza.
Non è facile provare a riportare l’ondata di fortissime emozioni che ci ha travolti questo pomeriggio durante l’incontro con gli artisti e sponsor locali, nostri partner nel progetto Gaza is Alive.
Abbiamo avuto la fortuna di incontrare delle realtà gazawe che hanno subito sposato con entusiasmo il progetto, credendo immediatamente nelle potenzialità dell’Hip Hop come linguaggio universale che riesce ad abbattere tutti i confini linguistici e culturali.
Le individualità del progetto Gaza is Alive rappresentano ciascuno una storia, un vissuto e un’esperienza unica ma la forza del progetto è data principalmente dai valori comuni che rivedono nello scambio e nell’incontro un momento di crescita.
E’ bastato sederci in cerchio e guardarci negli occhi per capire che tra di noi c’era intesa e che l’incontro con le discipline che nascono “dalle macerie” ha migliorato le vite di ciascuna delle persone sedute in quel cerchio a conferma della potenzialità dello strumento.
Non a caso «Peace, unity, love and havin’ fun», uno dei motti dell’Hip Hop, rappresenta il filo conduttore che legherà tutti i laboratori.
Quello che ci portiamo a casa dall’incontro di ieri è che
La carovana di Gaza is Alive è atterrata all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv (Israele).
Superati i controlli israeliani siamo subito operativi: grazie a Kobra e Wag Lab siamo entrati in contatto con il distributore locale dell’azienda di spray e siamo riusciti a recuperare gli ultimi materiali necessari per le attività .
Prima della cena facciamo un briefing per definire gli ultimi dettagli di ciò che ci aspetta nelle prossime due settimane. Tante le attività previste, siamo carichissimi e pronti alle prime sfide dei prossimi giorni.